Quando sono nata non avevo nessuna sorella ad attendermi. E da piccina ci stavo un po’ male, continuavo a chiedere ai miei di adottare una sorella più grande. Quando avevo tre anni e mi dissero che avrei avuto un fatellino o una sorellina, io speravo di avere una sorella. Ma nada. A dodici anni, stessa storia: un fratellino o una sorellina. E ancora un fratellino. Alla fine, competitiva come sono, sono stata molto felice di avere due fratelli e nessuna sorella, altrimenti sicuramente la gente avrebbe deciso chi era quella più bella e io sarei impazzita. Però vedevo le mie amiche con una sorella maggiore come dotate di un’arma in più. Fondamentalmente trovavo figo lo scambio di vestiti, però una sorella più grande per me era come avere gli occhi blu o i capelli naturalmente lisci: un’arma in più per la vita. Poi, a un certo punto, uno si fa una ragione per tutto. A diciannove anni, mentre mi sono convinta che le mie tette non sarebbero cresciute e che potevo smettere di dire che non usavo il reggiseno perchè ancora non mi serviva, nella mia vita è arrivata una sorella. Avevo già avuto amicizie forti, ma questo già lo sapete. Però quando lei è entrata nella mia vita è stata quasi sin da subito proprio una sorella. Con lei, a cui potevo rubare e ancora rubo vestiti, ho scoperto che quel mondo magico e simbiotico tra sorelle non era basato solo su quello ma che c’era molto di più. C’era l’empatia, c’era la sinergia. C’era bisogno di uno sguardo per capire. I ‘come stai?’ erano superflui. I piatti di pasta che mi aspettavano a casa sua, alle quattro del pomeriggio, “che lo so che non hai ancora mangiato”, erano la prova di famiglia più grande che potesse offrirmi. I cartoni animani guardati nel letto dell’altra, addormentandosi, erano l’infanzia sorellesca che la vita mi stava dando dopo che l’avevo tanto desiderata, anche se ormai ero cresciuta. Le sorelle più grandi sono una benedizione che la vita regala solo a certe persone e, a me, quasi quasi, questa benedizione non voleva darla. E allora io me la sono presa. Io mi sono presa lei. Lei si è presa me. Avevo vent’anni e guardavo lei venticinquenne: ai miei occhi era grande, bella, forte, invincibile. Era quello che sarei voluta diventare. Gli anni sono passati, veloci. Così veloci che sembrano essermi scivolati come sabbia dalle dita. Negli anni si sono sussguiti traslochi, trasferimenti, fidanzati che ci prendevano e ci mollavano, una gravidanza (dove la sorellanza è stata molto evidente quando le avevo detto che non era ingrassata e lei si era arrabbiata perchè “lei prima non aveva tutte quelle cosce”), si sono sesseguite ansie da tesi, da ricerche di lavoro, ansie da sogni che non si realizzavano, felicità condivisa per quelli che, invece, si realizzavano. Non ci siamo mai risparmiate commenti, belli o brutti. Sono cambiati i corpi, le case, il colore dei capelli, le nostre vite; ma non siamo cambiate noi. Il rapporto di sorellanza oggi si palesa quando resto con M., che non è un nipote di sangue -e che mi fa venir l’ansia per quanto impazzirò quando uno dei miei fratelli mi darà un nipote ‘ufficiale’ (credo che comincerò a ricamare per l’occasione)- e per la fiducia spassionata con cui me lo lasciava quando era piccolissimo, malgrado io sia abbastanza famosa per l’essere svampita. La fiducia si dimostra ogni volta che mi chiede di cucinare qualcosa, anche dopo quella volta che ho versato una bottiglia di salsa su una pizza. L’amore si dimostra quando io lo so che lei ha un sacco di paturnie più grandi delle mie, eppure mentre M. guarda i cartoni e usciamo a fumare, lei mi chiede com’è andata con T. dopo che ha visto A.
La vita non mi ha dato capelli lisci di natura, ma me li sono presi. Non mi ha dato gli occhi blu e all’alba dei ventisette anni, dopo svariati anni di problemi col mio corpo, non mi interessa più così tanto. La vita però mi ha regato una sorella. Spesso dico che se avessi avuto una sorella vera, non avrei potuto avere rapporto più bello di quello che ho con lei. E lo penso davvero. Oggi, guardo quelle stesse amiche che da ragazzina un po’ invidiavo per le loro sorelle e mi rendo conto che tra di loro non c’è il rapporto che c’è tra noi. Forse perchè loro sono semplicemente nate nella stessa famiglia e hanno dovuto imparare, crescendo insieme, a sopportare i difetti dell’altra. Noi no. Noi ci siamo scelte. Noi abbiamo imparato ad amare i difetti dell’altra. L’altro giorno lei piangeva. E io ho fatto la cosa che più odio di me quando qualcuno sta male: ho cominciato a piangere con lei. Mi sarei odiata se fosse successo con chiunque altro. Con lei no. Con lei mi è sembrata la cosa più bella che potessi fare.
Dalla prima volta in cui l’ho incontrata, mi ricordo perfettamente dove, come e quando, ho sentito qualcosa nello stomaco. Quando mi parlava, sentivo in lei qualcosa che mi appartiene nel profondo. Come quando a vent’anni la guardavo venticinquenne e speravo di diventare come lei; oggi la guardo nella sua vita da poco più che trentenne e spero di diventare la metà di quello che è lei. Io vengo da una famiglia piena di donne forti, le donne forti sono per me la normalità. Mio padre, ogni volta che scalpito, mi dice che sono come mia nonna: una dittatrice nata. Però io una donna forte e coraggiosa come lei non l’avevo mai conosciuta e sono proprio fiera di essermela scelta, ormai tanti anni fa, come sorella maggiore.
Qualche pomeriggio fa, mi raccontava di questo spettacolo che aveva visto a teatro. L’aveva colpita la scena di questa donna, in piedi, da sola, con un ago in mano. E nessun filo. E’ un po’ così che sei oggi, stella mia. E non ti stai rendendo conto che il filo non lo vedi perchè il filo sei tu. Tu sei il filo di te stessa, della tua vita. In questa stanza, piena di cassettini di tutti i colori, tu non sei un cassettino con un colore: tu sei tutti i colori. E la realtà è che nessuno potrà portarsi via i tuoi colori.
Lo so come ti vedi, ti conosco bene e sono perfettamente consapevole che abbiamo una bella fettona di cose in comune. So che credi di barcollare tra tutte queste cose incerte e poco chiare ma in verità, ai miei occhi di sorellina piccina, hai appena cominciato una danza bellissima. Sei sulle punte e il male è terribile, sono un’ex ballerina, lo so. Fa un male porco dar vita ad una pirouette. Ma chi ti guarda, non sa di quanto il tulle pizzichi sulla pelle, non sa dei piedi che sanguinano: loro vedono la magia. Io sono il pubblico. Ma sono anche quella che ti comprerà i cerotti per le punte.
In questa dichiarazione di amore pubblica, voglio dirti che sei la mia roccia, che sei la mia musa. Che dire che ti voglio bene è riduttivo. Voglio dirti che, forse non te l’ho mai detto, ma che ogni volta che ti guardo con M. io penso che voglio essere una mamma come te, da grande. Sei la sorella maggiore migliore di tutto il mondo e io sono qui, a guardati danzare con gli occhioni sognanti, lucidi per l’emozione. Ma nella borsa ho i cerotti. E accanto alla sedia, ci sono i fiori, per quando avrai finito lo spettacolo.